Le ideologie sono sempre degli altri

(breve manuale di autodifesa nell’era post-ideologica)

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C’è chi dice che l’uguaglianza sociale tra gli uomini «porterebbe la società ad atrofizzarsi», perché il singolo individuo non troverebbe più ragioni per fare del suo meglio al fine di contribuire allo sviluppo culturale, scientifico, economico della società in cui vive, se non gli fosse garantito un tornaconto strettamente personale.
A prescindere dall’adesione o meno al concetto espresso in questa frase, intendo mostrare che essa è di natura ideologica, né più né meno della frase «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che è ovviamente stata tacciata di essere ideologica e non aderente alla realtà.

Cominciamo con un primo concetto: la parola “ideologia”, nel discorso che segue e ove non diversamente specificato, è usata nella sua accezione comune, quella giornalistica e dei saltimbanchi dei salotti televisivi. Ovvero, è un’interpretazione della realtà che si pone dei punti di riferimento e degli schemi interpretativi e che fa ricadere praticamente ogni fatto sociale, politico, economico, culturale, nella sfera di interpretazione definita da tali schemi. Spesso l’accusa di essere ideologico è usata per screditare l’interlocutore, sottintendendo che l’ideologia è un male da estirpare, per persone dalla mente chiusa, incapaci di accettare qualunque cosa che non si accordi perfettamente con i loro dogmi, i loro miti e le loro idealizzazioni.

Questa retorica contrappone alle ideologie, vecchie e sconfitte, le idee, nuove e portatrici di pensiero critico; allo stesso tempo afferma la necessità di basarsi sui fatti e di adottare un pensiero post-ideologico per il bene dell’umanità, pensiero che è insegnato nelle scuole e nelle università ed è veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente. Però qualcosa non torna nella pretesa di essere post-ideologici: se l’ideologia è uno strumento di interpretazione dei fatti, cosa significa superare le ideologie? Se significa rinunciare a schemi organici di interpretazione della realtà, cioè osservare i fatti senza la pretesa di interpretarli, allora tale superamento non ha senso.
Prima di tutto perché l’oggettività assoluta non esiste: neanche la scienza, che è quanto di più vicino all’oggettività l’uomo abbia mai prodotto, rinuncia all’interpretazione dei fatti, anzi è essa stessa una loro interpretazione. I fatti, qualunque sia la loro natura, devono essere interpretati e l’interpretazione che se ne dà costituisce quella che comunemente è detta ideologia.
In questo modo cade la distinzione tra idee e ideologie. Cosa sono le idee, astrazioni slegate dalla realtà dei fatti? No: se così fosse, di che utilità potrebbero mai essere? Anche le idee derivano da un’interpretazione, che non è concettualmente diversa da quella che conduce alle cosiddette ideologie.

Ma se il superamento delle ideologie non è possibile, che cosa nasconde la pretesa di essere post-ideologici?
Propugnare il superamento delle ideologie significa di fatto sostenere un’ideologia del pensiero unico, in cui si accettano le idee e si respingono le ideologie: generalmente chi fa questo discorso di contrapposizione tra idee e ideologie tende a considerare idee tutto ciò che fa parte dell’ideologia dominante e ideologia tutto ciò che non ne fa parte. La distinzione tra le due cose è dunque fittizia ed arbitraria. Anzi, con una strizzata d’occhio diciamo pure che è ideologica (marxianamente, questa volta!).

Così, l’affermazione «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che si basa su un patrimonio filosofico e politico che spazia da Marx a Žižek passando per Marcuse e Debord, è ideologica tanto quanto la convinzione che «l’uguaglianza sociale porterebbe la società ad atrofizzarsi», che descrive ciò che accadrebbe se l’uguaglianza sociale fosse praticata in un sistema capitalistico, che ha le sue leggi economiche difficilmente applicabili ad altri sistemi. Infatti, l’esistenza in passato (ma anche nel presente) di società egualitarie, spesso basate sulla distribuzione equa delle risorse e della produzione, che non sono implose, ma anzi sono prosperate per secoli o millenni, dimostra bene che l’affermazione ha scarsa capacità descrittiva dello stato reale di cose, non appena si esce da un sistema capitalistico.

Ora, che l’economia borghese pretenda velleitariamente di descrivere leggi universali è già stato detto da qualcuno che ne sapeva sicuramente più di me, ed è stato poi confermato da altri e da altri ancora.
Il punto è prenderne coscienza, tutti, e non farci ingabbiare dalla logica del pensiero unico.

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Lotta continua contro l'Ancien Régime!

Pubblicato il 30 aprile 2012, in Pensieri con tag , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. 11 commenti.

  1. Bella riflessione, concordo.
    Se un uomo è convinto di avere una spiegazione logica e lineare per comprendere un fenomeno sociale, costui è un’idiota e la sua sarà pura ideologia.

    Da Marx a Keynes, fino a Friedman, lo studio dei fenomeni sociali è stato intriso di giudizi di valore sui quali calavano un velo di scientificità tramite la filosofia morale e la matematica.

    Ma la verità è che dietro i loro studi si cela l’arroganza di qualcuno che pensa di sapere cosa è giusto per l’umanità intera.

    Se nessuno si fosse sentito in diritto di elevarsi sugli altri e di giudicare, l’umanità sarebbe progredita da tempo. E invece, siamo ancora fermi ai tempi alle poleis, in senso di maturità interiore.

  2. Come fai ad essere d’accordo con me e allo stesso tempo affermare il contrario?
    Forse ho capito male il tuo commento, ma non mi sembra che sia in accordo con il concetto espresso nella mia riflessione, ovvero l’impossibilità di superare alle cosiddette ideologie rinunciando a schemi interpretativi globali dei fenomeni sociali.
    Inoltre quando parli di pura ideologia ti stai riferendo alla sua accezione marxista o a quale altra?
    Ti ho capito male io?

  3. “l’impossibilità di superare le cosiddette ideologie rinunciando a schemi interpretativi globali dei fenomeni sociali” è una presa di consapevolezza utile e matura.

    Ma ora a noi la scelta: indossare una maschera (o un’ideologia) e continuare a giocare a guardie e ladri e continuare con l’inganno per gli ignoranti, oppure diffondere questa consapevolezza e costruire qualcosa di nuovo partendo dal dialogo anziché dai libri?

    Pensavo che la risposta data dal tuo articolo fosse scontata: ovvero la seconda scelta.
    Mi sbagliavo?

    Quando parlo di pura ideologia mi riferisco ad un qualsiasi tipo di spiegazione, difesa da un impalcatura o morale o matematica, che tramite infinite ipotesi logico-deduttive (che partono comunque da giudizi di valore) arriva ad avere un giudizio completo che aspira all’onniscienza su qualsiasi fenomeno sociale.
    Gli adepti a tali correnti di pensiero adottano con arroganza e presunzione le loro armi fondate sul nulla, la critica altrui non può scalfire l’inesistente.
    Quindi la loro devozione ha un carattere religioso che cercano di imporre agli altri, con le parole e/o con i progetti sociali.

  4. Indossare una maschera o costruire qualcosa di nuovo? Sinceramente mi piace la lettura che dai dell’articolo, la trovo interessante e forse non mi ero neanche reso conto di aver posto una questione del genere: la questione originaria era la critica al pensiero unico, senza elementi realmente propositivi (se non, ovviamente, una generica presa di coscienza).

    Allo stesso tempo, discutere mi ricorda sempre quanto sia difficile comunicare ciò che si pensa. Infatti, dal mio punto di vista (che credevo di aver espresso chiaramente nell’articolo), il problema della scelta tra indossare una maschera e costruire qualcosa di nuovo non si pone: quando sostengo che è impossibile superare le ideologie, intendo dire che anche nel «costruire qualcosa partendo dal dialogo anziché dai libri» sono le ideologie a farla da padrona, perché non potrebbe essere diversamente, dal momento che tutti maturiamo le nostre convinzioni non puri, avulsi dalla realtà che ci circonda, ma alla luce delle nostre esperienze, dei rapporti sociali, di idiosincrasie irrazionali e traumi latenti. Questo significa che (da un non troppo vecchio articolo che infatti ho elencato tra gli “articoli correlati”) «tante delle nostre opinioni si basano su presupposti non dimostrabili che, in virtù di tale indimostrabilità, non possono essere scalfite dal confronto e dal ragionamento dialettico e sono destinate a restare inconciliabili con altre opinioni: ecco perché su queste questioni non si potrà mai trovare un accordo unanime».

    Insomma il succo del discorso è che esistono delle scelte che sono destinate a rimanere arbitrarie. Faccio un esempio per ricollegarmi al contenuto dell’articolo: tra le due opinioni «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto» e «l’uguaglianza sociale porterebbe la società ad atrofizzarsi» io personalmente faccio mia la prima ma non la seconda, perché la prima è in accordo con dei miei principi e valori che derivano dalla mia esperienza sociale e umana, dalla mia formazione, da mie opinioni personali. Ma in fin dei conti stiamo parlando di morale, e non c’è modo di dimostrare “scientificamente” che lo sfruttamento capitalistico è ingiusto, perché, come dici, ciò significherebbe imporre la mia personale morale. Allora io non lo faccio e mi limito a dire che il capitalismo è un sistema che io non posso accettare.

    Cosa voglio dire allora quando parlo della necessità di prendere atto di questa impossibilità di superamento? Voglio dire esattamente questo: che se qualcuno pretende di dimostrare scientificamente, come se fosse una legge di natura, che l’uguaglianza sociale è dannosa per la società, sta di fatto imponendo la sua morale. Invece dovrebbe avere il coraggio di riconoscere che la sua posizione è ideologica, perché deriva da leggi morali e non da leggi della fisica.

    Non so se si è capito ciò che volevo dire. Spero di aver chiarito.
    Sei d’accordo?

    Gorgia da Leontini

  5. Si, ok. Quanto intendo dialogo, in questi casi intendo una serie di tecniche che ho studiato da poco: tecniche della mediazione e della gestione dei conflitti, metodo del consenso, strategie di comunicazione non-violenta, della facilitazione di gruppi decisionali o democrazia partecipativa, ecc.. . In questi casi riconoscere la propria ideologia con i propri limiti diventa un opportunità per superarli o limitarne gli effetti negativi nella convivenza con gli altri. Dobbiamo solo rieducarci all’ascolto attivo e al confronto costruttivo. Affidarsi all’ideologia vuol dire affidarsi alla guerra, ora e nei secoli dei secoli.

  6. Sono d’accordo con te sulle pratiche (democrazia partecipata, ascolto attivo, confronto costruttivo), eppure insisto nel ritenerle riconducibili comunque a tracciati ideologici. La democrazia partecipativa e la comunicazione non-violenta sono compatibili con alcune ideologie e incompatibili con altre: sono esse stesse strumenti funzionali a certe ideologie piuttosto che ad altre. Anzi, mi spingerò oltre: sono l’espressione di certe ideologie piuttosto che di altre, sono il loro prodotto, il loro frutto materiale.
    Non si può ritenere che la preferenza della democrazia alla tirannia preceda le ideologie: preferenze di questo tipo sono maturate, storicamente, in certe condizioni, nell’ambito di certi rapporti sociali, non fanno dunque parte della natura umana ma sono determinate dal suo essere sociale.

    Quindi condivido l’elemento propositivo del tuo intervento ma non lo riconosco come un discorso di rinuncia all’ideologia né tanto meno di contrapposizione all’ideologia: di fatto, il tuo (e il mio) preferire la democrazia alla tirannia, il confronto costruttivo allo scontro distruttivo, l’ascolto all’indifferenza, è una presa di posizione più o meno implicitamente ideologica.

    Considerazione a parte: affidarsi all’ideologia vuol dire affidarsi alla guerra. Più specificamente direi “guerra di classe”, come fanno gli anglofoni. Ma chiedere di eliminare o di annullare il conflitto, la lotta, la guerra, è chiedere tecnicamente il fascismo: assenza di conflitti all’interno della nazione o di gruppi sociali fittizi.
    Che ne dici invece di lottare per non dover lottare più? Perché quando parliamo di “ideologia comunista” in fondo è di questo che si tratta.

  7. Non dico di avere la soluzione di tutto nelle tasche, però credo che troveresti interessante approfondire l’argomento che ti ho proposto.

  8. Si ok ma che ‘il capitalismo è intrinsecamente ingiusto’ sia un’affermazione ideologica assolutamente no. Anche all’interno di un sistema capitalistico l’analisi ‘il capitalismo è intrensicamente ingiusto’, è un’analisi vera e non ha caratteri di olisticità. Perchè c’è uno ‘scollamento’, come appunto notava Marcuse, tra fine (profitto) e mezzo (Uomo). Perciò è intrensecamente ingiusto.

  9. Intendo dire che è un’analisi che parte da principi morali, non fisici, quindi non scientifici (almeno finché qualcuno non dimostri che esista una qualche morale naturale, ma penso che anche se lo facesse non potrebbe prescindere dai rapporti sociali che determinano la sua analisi), né tanto meno assoluti.
    Ma ti assegno mille punti per aver tirato in ballo Marcuse.

  10. No. Non sono d’accordo. Dire che una cosa è giusta o ingiusta è muoversi nel campo morale, ma il giudizio morale in questo caso viene dopo.

    Muoviamoci nel campo morale.. dire che nel capitalismo vi è non corrispondenza tra mezzo e fine, è corretto. Assolutamente non appuntabile. Da ciò ne consegue che è ingiusto.

    Se vogliamo uscire dall’ambito morale ci limitiamo a notare che esiste questa non corrispondenza. Non tiriamo conlusioni morali, ma la verità dell’analisi permane e non può essere messa in dubbio.

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