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Emilio non era convinto
Emilio fu uno dei pochi seriamente preoccupati fin dal principio.
«Basta con le parole» dicevano. «Bisogna passare ai fatti. Viva la rivoluzione!»
«Quale rivoluzione?» chiedeva lui.
«La rivoluzione: dateci una rivoluzione e noi vi seguiremo».
Ma su che presupposti di base? Perseguendo quali principî, quali ideali, quale idea di società da costruire? Questo interrogativo Emilio si poneva in quei primi anni, ma alla domanda non c’era risposta, come si evinceva da dichiarazioni come quella fatta dal capo ispiratore di questa decantata rivoluzione: «Tutte le altre associazioni, tutti gli altri partiti, ragionano in base a dei dogmi, in base a dei preconcetti assoluti, a degli ideali infallibili, ragionano sotto la specie della eternità per partito preso. Noi, essendo un antipartito, non abbiamo partito preso».
Qualche anno più tardi lo stesso ribadirà: «Il programma non è una teoria di dogmi sui quali non è più tollerata discussione alcuna. Il nostro programma è in elaborazione e trasformazione continua; è sottoposto ad un travaglio di revisione incessante, unico mezzo per farne una cosa viva, non un rudere morto».
Tali esternazioni chiarivano fin da subito che la grandezza di quella particolare rivoluzione, secondo i suoi sostenitori, consisteva proprio nell’assenza di ideologie, considerate astratte e inadatte a produrre una qualunque risposta adeguata alla situazione esistente e da contrapporsi all’azione, la quale invece è in grado di risolvere concretamente i problemi reali, attraverso la dedizione, l’impegno, l’entusiasmo che prende l’animo e permette all’essere umano di imbarcarsi in grandi eventi, in imprese di importanza storica: il primo programma si definiva solennemente «rivoluzionario perché antidogmatico».
Emilio non era convinto. Questi pretendevano il raggiungimento di un insieme di obiettivi senza collocarli in una visione coerente: in virtù della sfoggiata mancanza di dogmi a influenzarne l’azione politica, perseguivano tutto ma anche il suo contrario. O almeno, questo davano a intendere.
L’incredulità di Emilio cresceva col tempo di fronte alle disarmanti giustificazioni di suoi amici ed compagni di partito che, uno dopo l’altro, passavano a sostenere questa nuova forza, più o meno apertamente. Chi perché tutti vi potevano trovar casa, purché disprezzassero la politica tradizionale e adorassero il nuovo («Voi siete democratici? E io non sono forse democratico? Voi siete autonomisti e repubblicani? Ebbene continuate ad esserlo, nessuno ve lo impedisce. Noi siamo un mosaico in cui la diversità dei colori e il multiforme aspetto dei dettagli dànno maggiore splendore all’insieme»); chi perché così doveva andare, per forza di cose, perché «di questo passo non si può andare innanzi», perché «i tempi sono difficili».
Non diversamente accadeva dentro le istituzioni, nelle grandi città, nelle campagne, in tutto il paese: chi in tempo di guerra era sembrato non avere alcuna voglia di morire, ora si dichiarava pronto alla morte; chi diceva «se quelli trionfano, la civiltà del nostro paese rincula di venti secoli», pochi giorni dopo prendeva incarichi con orgoglio da quelli che intanto avevano trionfato; chi era un sincero radicale oppositore, adesso si convertiva alla causa, motivandola con abbondanti ragioni ideali.
Emilio Lussu scrisse Marcia su Roma e dintorni nel 1931, dopo il confino a Lipari per la sua opposizione al fascismo. Attraverso la sua narrazione, con cui intendeva «fissare gli avvenimenti politici del mio paese, così personalmente li ho vissuti in questi ultimi anni», egli si proponeva di raccontare i meccanismi alla base della nascita del fascismo, soprattutto per scongiurare il rischio che simili fenomeni si riproducessero altrove.
La scelta di rivolgersi a lettori stranieri è significativa: nella prefazione, Lussu dedica il libro esplicitamente a un pubblico di non italiani e le prime edizioni non furono in lingua italiana: tutte erano precedute da una ragionata premessa da cui si evinceva lo scopo originario del libro, cioè illustrare la genesi del fascismo. Infatti, con quale illusione, e addirittura con quale utilità, raccontare il fascismo agli italiani? Questi già conoscevano bene, in cuor loro, i motivi che li avevano spinti in massa a rifugiarsi sotto le ali del fascio littorio, da sinistra e da destra. Gli abitanti di altri paesi invece no, perciò aveva senso stilare un’opera con funzione di prevenzione, di difesa immunologica, di sviluppo degli anticorpi culturali e degli strumenti necessari a sventare l’affermazione di fascismi simili.
Oggi più che mai, Marcia su Roma e dintorni deve essere letto dagli italiani: dopo decenni di rimozioni, mistificazioni, falsificazioni, revisioni, abbiamo dimenticato, come popolo, di averlo vissuto in prima persona, il racconto di Emilio Lussu. Noi, oggi, siamo come coloro ai quali era dedicato il libro: siamo come degli stranieri, siamo estranei alla nostra storia e straniati dal presente che è ancora storia. Oggi, questo libro è dedicato a noi.
Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione.
Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina
È più facile trovare un guerriero
È più facile trovare un buon guerriero che un buon narratore, ed è più agevole dare un colpo di picca che comprendere i disegni di quanti, sotto i nostri occhi, non fanno altro.
Jean-François-Paul de Gondi, Mémoires
È chiaro che il giudizio che diamo al presente è viziato da convinzioni particolari: c’è una naturale propensione a valutarlo secondo criteri diversi da quelli attraverso cui ci si misura con il passato.
Siamo convinti, per esempio, di aver raggiunto un livello di libertà insuperato nella storia: possiamo spostarci in relativa sicurezza, mediamente essere abbastanza sicuri che non moriremo ammazzati, possiamo andare dove vogliamo, comprare ciò che ci piace, vestirci come ci piace, dire ciò che pensiamo senza rischiare troppo.
Ma io mi chiedo se non potrebbe essere che ciò è dovuto semplicemente alle nostre lenti che ci impediscono di osservare il presente con prospettiva storica. Insomma, se sappiamo che, per dire, nel Medioevo era pericoloso viaggiare perché sulle strade si diventava facilmente bersagli di bande armate che aggredivano e derubavano, quanti oggi si incamminerebbero a piedi lungo una strada percorrendola giorno e notte senza che il pensiero di un possibile furto o maltrattamento gli passi per la testa? Probabilmente il rischio oggi è minore, ma potrebbe anche essere sempre rimasto uguale, e la nostra impressione di maggiore sicurezza dovuta semplicemente al fatto che questa immagine pregiudiziale di Medioevo ci tranquillizza.
Si dice che l’Europa sia un’isola di pace e libertà. Eppure fino agli anni Settanta in Spagna, Portogallo, Grecia c’erano dittature autoritarie, i paesi dell’est europeo conoscevano privazioni delle libertà individuali tipiche di un imperialismo totalitario, tentati colpi di Stato non erano insoliti. Fino a meno di venti anni fa in Europa c’era la guerra. Nella prospettiva storica venti anni non sono nulla.
Non è che quella che viviamo ora è solo una breve pausa nel caos, una pausa che tra cento anni sarà dimenticata invece che essere ricordata, con l’orgoglio di chi la vive ora, come il tempo in cui l’uomo (europeo, ovviamente) è stato meglio? Esattamente come sono stati dimenticati i certamente numerosi intervalli del passato, tra una guerra e l’altra, tra una carestia e un’epidemia. Magari anche loro erano felici e si sentivano liberi, pensavano di vivere in un’epoca di pace. Magari i francesi dopo la Guerra dei sette anni, fino a pochi minuti prima della presa della Bastiglia; magari i vari italiani dopo la pace di Lodi; magari i baffuti borghesi della belle époque…
Quello che dico è che non sappiamo come si sentissero gli abitanti del passato. Non facciamo fatica ad attribuire cause economiche, di successione, di ragion di Stato, a fatti, crimini, nefandezze e guerre del passato; quando le stesse cose accadono nel presente non ce ne accorgiamo o attribuiamo loro cause molto più accondiscendenti, non più oggettivamente economiche e politiche bensì soggettive e ideologiche.
Noi ci sentiamo diversi dagli uomini del passato per lo stesso motivo per cui ci sentiamo diversi dalle scimmie, perché abbiamo un blocco mentale, perché abbiamo una visione distorta: guardiamo il presente dall’interno, il passato dall’esterno, ed è sempre difficile fare autoanalisi.
Non so se mi spiego, è scritto di getto.
L’ambientalismo non basta: il caso di Balaguer
Chi ha letto Diamond e conosce il suo stile oggettivo e imparziale, quello dello scienziato che disseziona la realtà e cerca di spiegarla senza pretese giustificazioniste, sa bene di non doversi aspettare troppe divagazioni politiche in senso stretto nei suoi libri. Trattando di popoli, modelli culturali, economici e sociali, di sistemi politici dai più egualitari ai più autoritari e dittatoriali, si trova spesso a scrivere di regimi: non c’è una volta che lasci trapelare quale sia il colore di questi regimi. Per esempio, leggendo il capitolo di Collasso sul genocidio dei tutsi, devi cercartelo per conto tuo che in Rwanda, ai tempi del massacro degli anni Novanta, c’erano di mezzo i fascisti del Hutu Power.
L’espediente letterario è sensato o perlomeno legittimo: Diamond ha operato una scelta nella sua analisi, ovvero quella di prediligere gli aspetti ambientali e di sfruttamento delle risorse naturali del territorio, e dunque resta coerente occupandosi esclusivamente di tali aspetti, senza sbilanciarsi sul resto. Che gli hutu estremisti fossero organizzati in squadre fasciste paramilitari poco importa ai fini della valutazione degli effetti che hanno avuto sull’ambiente in cui vivevano. Condivisibile o meno che sia, questo è il ragionamento seguito da Diamond.
Per questo motivo, sono rimasto sorpreso quando, a pagina 358 di Collasso, al capitolo XI, ho letto per la prima volta la parola «capitalismo». In realtà, trattando di economia in generale e dunque anche negli ultimi secoli, fin dal primo capitolo si parla di capitalismo, senza però menzionarlo. Questa inaspettata comparsa si ha nello stralcio seguente, a conclusione del paragrafo su Joaquín Balaguer, complice per trent’anni del dittatore Trujillo e poi autoritario presidente dominicano per decenni, fino al 1996:
Nel 1961, dopo l’assassinio di Trujillo, molto politici dominicani avrebbero potuto essere validi presidenti, ma nessuno di loro aveva, neanche in minima parte, l’esperienza pratica di Balaguer. Quasi tutto concordano sul fatto che riuscì a far nascere un abbozzo di capitalismo e un vero ceto medio, e in generale a modernizzare e rafforzare il paese. Grazie a questi risultati, molti dominicani sono disposti a chiudere un occhio sulla sua tirannide.
Non è la prima volta che Diamond, nella sua tradizionale imparzialità, si lasci sfuggire giudizi politici ideologici e non più scientifici. Nello stesso capitolo assume uno strano atteggiamento riguardo la nascita di Haiti nel 1804
Gli ex schiavi ribattezzarono il loro paese Haiti e si diedero a massacrare i bianchi e a distruggere le piantagioni. Le terre furono ridistribuite e suddivise in piccoli appezzamenti a gestione familiare. Anche se questa soluzione era più equa rispetto al sistema precedente, a lungo andare si dimostrò disastrosa per l’economia, perché la produttività calò e le esportazioni diminuirono. Tragica fu anche la perdita di risorse umane, per l’uccisione di gran parte della popolazione bianca e l’emigrazione dei pochi sovravvissuti.
o riguardo il neonato consumismo della Repubblica Dominicana, criticato esclusivamente per il fatto che «l’economia dominicana ancora non riesce a sostenerlo».
La spiegazione più plausibile, secondo me, è che Diamond, sulla cui onestà intellettuale non nutro dubbi, si sia lasciato sfuggire alcune opinioni che rientrano nei vari frame tipici della nostra epoca e della nostra società: del resto, nessuno può essere assolutamente obiettivo. Insomma, non credo che queste dichiarazioni siano camuffate in malafede.
Tenendo da parte queste considerazioni, l’aver tirato in ballo il dittatore Trujillo e il suo successore Balaguer ci permette di farne delle altre, a proposito dell’ambientalismo: Joaquín Balaguer, infatti, era uno strenuo difensore della causa ambientalista, in un momento storico in cui essa non si era ancora affermata né era efficacemente strutturata (si tratta di un periodo che inizia già agli inizi degli anni Sessanta).
Rafael Trujillo governò la Repubblica Dominicana dal 1930 al 1961, anno della su uccisione avvenuta forse con l’assenso o l’aiuto materiale della CIA. Il dittatore gestì il paese come se fosse un’azienda privata, ottenendo consensi attraverso il culto della personalità e cercando di ricavarne il massimo profitto: a tal fine, però, andava posto il problema dell’esaurimento delle risorse in un territorio, come quello dominicano, che per secoli aveva subito uno sfruttamento eccessivo e che rischiava la deforestazione, la perdita di fertilità, la salinizzazione dei suoli e la loro erosione, processi che erano già preoccupantemente in atto e che alcune organizzazioni cittadine locali avevano già cercato di limitare prima della dittatura. Per questo il regime finanziò un vasto programma di recupero, che prevedeva l’importazione dall’estero di gas, la costruzione di dighe per la produzione di energia idroelettrica e la protezione delle poche foreste rimaste: tutti provvedimenti volti a evitare l’abbattimento degli alberi.
Con la morte di Trujillo, i terreni pubblici incominciarono a essere occupati e le foreste a essere bruciate per ricavarne terreno agricolo: iniziò così un periodo di abbattimento delle foreste a ritmi forsennati, che non furono rallentati neanche dai tentativi del nuovo governo, democraticamente eletto, di regolamentare le attività, dato che i grandi proprietari terrieri riuscirono a farlo cadere.
Nel 1966 fu eletto presidente Balaguer, per decenni al servizio del precedente regime coprendo importanti posizioni di comando. Le politiche ambientali di Balaguer furono più drastiche di quelle di Trujillo, ma mentre quest’ultimo cercava un tornaconto, giacché aveva valutato il potenziale commerciale del legno e aveva fatto in modo di eliminare la concorrenza, il primo sembrava disinteressatamente convinto della necessità di proteggere il territorio (ciò è testimoniato dal fatto che fece distruggre delle ville appartenenti a suoi amici, perché si trovavano in aree protette): vietò il taglio del legno a scopi commerciali, fece chiudere le segherie, affidò all’esercito il compito di far rispettare le leggi ambientali, attraverso sorveglianza aerea e operazioni a tappeto (durante una delle quali furono uccise dieci persone), dichiarò l’abbattimento degli alberi un crimine contro la sicurezza nazionale.
Per ridurre la domanda di legno locale, scoraggiò la produzione e l’utilizzo di carbone e promosse l’importazione di gas naturale estero, regalando poi ai cittadini bombole di gas e stufe per agevolarne l’uso.
Ampliò le riserve naturali e istituì i primi parchi costieri, protesse le zone umide, dichiarò inviolabili gli argini dei fiumi, vietò la caccia per dieci anni, tassò pesantemente le attività minerarie inquinanti, cercò di combattere l’inquinamento atmosferico e il mancato trattamento dei rifiuti industriali.
I fini di tutela ambientale prevalevano per Balaguer sullo sviluppo direttamente economico, anche a costo di rinunciare ad infrastrutture: bloccò la costruzione di strade, aeroporti e porti.
Insomma, la Repubblica Dominicana sarebbe stata un paradiso per gli ambientalisti e i decrescitisti.
Non fosse che Balaguer si era macchiato di complicità nei precedenti trent’anni di regime, che ricorse alla violenza e all’intimidazione per vincere le elezioni, permise il dilagare della corruzione, organizzò squadracce criminali che assassinarono migliaia di esponenti dell’opposizione, scacciò i poveri senza terra dai parchi nazionali, diede l’ordine di uccidere chi fosse colto in flagrante nell’atto di tagliare un albero.
Una decrescita non proprio felice, eppure il programma era decrescitista ante litteram.
La morale della storia? Sta scritta nel titolo.
Scialuppe di salvataggio
Com’è ormai consueto ultimamente, propongo un brano tratto da Collasso di Jared Diamond, di cui ho già parlato (qui e qui). Segue dibattito, spero di iniziarlo bene una volta che avrò messo in ordine i miei pensieri.
[…] In breve, i norvegesi esaurirono, senza volerlo, le risorse ambientali da cui dipendevano, tagliando gli alberi, asportando le zolle di torba, lasciando pascolare gli animali più di quanto il territorio potesse sopportare e provocando l’erosione del suolo. Le risorse naturali della Groenlandia di per sé, combinate con la variabilità del clima, erano appena sufficienti a sostenere una società europea che vivesse di pastorizia. […]
È probabile che quando una fattoria povera si trovasse ridotta alla fame per la scomparsa di tutto il bestiame, i suoi abitanti si spostassero nelle fattorie migliori, dove entravano con le buone o con le cattive.
L’autorità dei preti e dei maggiorenti sarebbe stata riconosciuta e rispettata soltanto a condizione che costoro, per volontà di Dio, proteggessero tutta la comunità. Ma la fame e le malattie fecero crollare la fiducia della popolazione nelle autorità religiose e civili, proprio come era accaduto 2000 anni prima con la peste di Atene, secondo quanto racconta Tucidide nel suo terrificante resoconto. La gente affamata si riversò su Gardar in gran numero, e le autorità, travolte, non poterono impedire che la folla macellasse le ultime mucche e pecore rimaste. Le provviste, che sarebbero forse bastate a mantenere in vita i residenti della fattoria, se tutto il vicinato non vi si fosse riversato in massa, furono interamente consumate nel corso di quell’ultimo inverno, in cui tutti cercavano di saltare a bordo dell’ultima, sovraccarica scialuppa di salvataggio, mangiando cani, animali appena nati e gli zoccoli delle mucche.
Questa situazione ricorda i fatti di Los Angeles, al tempo dei disordini seguiti al caso Rodney King. L’assoluzione degli agenti incriminati di aver brutalmente malmenato un malcapitato di colore scatenò lo sdegno di migliaia di abitanti dei quartieri poveri, che si riversarono nelle strade distruggendo negozi e saccheggiando i quartieri ricchi.
Il loro numero superava di molto quello dei poliziotti, che non poterono far altro che sbarrare con dei cordoni le strade che conducevano ai quartieri ricchi, nel vano tentativo d’impedirne l’accesso ai saccheggiatori.
Oggi assistiamo sempre più di frequente a fenomeni simili su scala globale: gli immigranti provenienti dai paesi poveri si riversano a fiotti sul battello di salvataggio rappresentato dai sovrappopolati paesi ricchi, e i controlli alla frontiera sono incapaci di arrestare questo flusso, proprio come le autorità di Gardar o i cordoni di Los Angeles. Stanto così le cose, sarebbe sbagliato liquidare il caso dei norvegesi in Groenlandia come la storia di una piccola società remota vissuta in un ambiente fragile, irrilevante per la nostra ben più vasta e solida civiltà.
Quanto manca a Pasqua?
Si resta affascinati ogni volta che si pensa a come l’isola di Pasqua fu colonizzata dai primi uomini che la videro, più di mille anni fa, a come riuscirono a vivere in completo isolamento, nel posto più sperduto dal mondo (migliaia di chilometri di oceano Pacifico in ogni direzione) per poi spegnersi improvvisamente lasciando ai posteri statue monumentali e altre prove di una ben più viva e florida civiltà, con la sua complessità sociale e politica.
Mi era successo con Armi, acciaio e malattie, mi succede ancora con Collasso: ogni volta che Jared Diamond parla dei Polinesiani, della loro conquista dell’oceano a bordo di canoe, della loro capacità di adattarsi ai più vari ambienti e con le più diverse risorse, lascia stupefatti e fa innamorare di quei popoli.
Quando i primi coloni giunsero sull’isola e attraccarono alla baia di Anakena, primo luogo di insediamento umano, trovarono un’isola già abitata da molte specie animali (in particolare uccelli) e vegetali che da tempo immemore la occupavano: una fitta vegetazione arborea, composta soprattutto di palme giganti, ricopriva la superficie ondulata e i rilievi testimoni dell’origine vulcanica dell’isola, formata a suo tempo dall’eruzione di ben tre vulcani adiacenti.
Questa ricca flora locale, unita alla meno ricca fauna autoctona che fu comunque integrata con il pollame che i coloni avevano portato con sé in canoa, permise agli abitanti dell’isola di sviluppare una civiltà altrettanto ricca: con le foglie degli alberi, il legno, le radici delle piante, la coltivazione delle aree adatte, la pesca, la caccia degli uccelli e la raccolta delle uova, l’estrazione di pietra dalle cave lasciate dagli antichi vulcani, questo popolo si potè procurare tutto ciò di cui avesse bisogno: cibo, strumenti, riparo.
In aggiunta alla soddisfazione di questi bisogni materiali, gli isolani onorarono gli antenati con la costruzione dei famosi moai, i misteriosi volti in pietra scolpita, alti fino a 10 metri e pesanti decine di tonnellate: erano modellati sul luogo di estrazione della roccia, poi trasportati nelle varie zone dell’isola, infine innalzati in posizione verticale, su enormi piattaforme in pietra, con lo sguardo rivolto verso l’entroterra.
Come tante altre rovine testimoni di civiltà passate, i moai sono impressionanti soprattutto per le domande che di fronte ad esse si pone l’uomo moderno: quali sistemi dovettero utilizzare i loro costruttori per innalzarle senza macchine, con la sola forza delle braccia? quale megalomania dovette prendere l’animo degli scultori o di chi li commissionava, portando nel tempo alla costruzione di statue sempre più alte e pesanti? perché all’arrivo, nel corso del Settecento, degli esploratori europei, le statue furono trovate tutte cadute per terra, molte delle quali spezzate?
Gli storici di vario genere (quindi anche biologi e geografi, non solo archeologi e paleografi) hanno delle buone risposte a questo tipo di domande. Per una trattazione completa e interessante consiglio vivamente il II capitolo di Collasso, Jared Diamond, 2005.
Le statue erano innalzate sfruttando una tecnica che i discendenti degli isolani hanno raccontato volentieri quando finalmente qualcuno si è degnato di chiederglielo. Questa tecnica richiedeva l’utilizzo di molto legno, per costruire binari, funi e leve; inoltre richiedeva, ovviamente, la forza muscolare di centinaia di persone. Indirettamente, quindi, le risorse necessarie a questo lavoro erano la roccia delle cave per le statue e le piattaforme, le colture per sfamare chi lavorava senza poter produrre (era, in pratica, un impegno a tempo pieno), il legno degli alberi per cucinare il cibo e costruire gli attrezzi necessari. La necessità di un aumento demografico era soddisfatta allargando le colture ed estendendole ai terreni meno adatti.
Tutte queste attività, cioè deforestazione, coltivazione, caccia, pesca, provocarono una serie di conseguenze gravi per l’ambiente dell’isola di Pasqua: la maggior parte delle specie autoctone di uccelli si estinse, i terreni cominciarono a essere poco produttivi, il legno iniziò a scarseggiare. Senza alberi, non si potè più pescare perchè le canoe non furono ricostruite; la terra fu dilavata dalle piogge, in quanto non più protetta dal fogliame, e divenne ancor meno produttiva; le statue non furono più costruite; come combustibile si iniziò ad usare l’erba secca, anche se poco efficace. La produzione alimentare non poteva più sostenere la popolazione che era cresciuta in un periodo di intenso sfruttamento del terreno: molti isolani morirono di fame perché il cibo non bastava per tutti, ma questo accadde non prima di una sanguinosa guerra civile, durante la quale, presumibilmente, furono abbattute le statue innalzate dai gruppi ora avversari. I superstiti si diedero al cannibalismo per poter sopravvivere. Non potevano salpare verso nuove isole, perché non c’era più il legno per le imbarcazioni.
«Mi sono spesso domandato cosa pensasse l’abitante dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero di palma. Forse gridava: «Non alberi, ma posti di lavoro»? Oppure: «La tecnologia risolverà tutti i nostri problemi! Non temete, inventeremo un materiale sostitutivo per il legno»; o magari: «È possibile che ci siano altre palme nelle zone inesplorate dell’isola di Pasqua. Si rendono necessarie ulteriori ricerche, perciò il divieto di abbattere gli alberi è prematuro e sparge solo il panico tra la popolazione». […]
L’isolamento di Pasqua spiega, probabilmente, perché il crollo di questa società ossessioni i miei lettori e i miei studenti. I paralleli che si possono tracciare tra l’isola di Pasqua e il mondo moderno sono così ovvi da apparirci agghiaccianti. Grazie alla globalizzazione, al commercio internazionale, agli aerei a reazione e a Internet, tutti i paesi della Terra condividono, oggi, le loro risorse e interagiscono, proprio come i dodici clan dell’isola di Pasqua, sperduti nell’immenso Pacifico come la Terra è sperduta nello spazio. Quando gli indigeni si trovarono in difficoltà, non poterono fuggire né cercare aiuto al di fuori dell’isola, come non potremmo noi, abitanti della Terra, cercare soccorso altrove, se i problemi dovessero aumentare».
La democrazia ha senso?
Alcuni recenti discorsi mi hanno offerto l’opportunità di riflettere su concetti che davo ormai per assodati e su un interrogativo che potrebbe sembrare banale, ovvero: la dialettica democratica ha senso? E tali riflessioni hanno partorito una risposta positiva, quindi una conferma di ciò che pensavo prima di intraprendere le sopra menzionate discussioni. Si potrebbe osservare che crucciarsi tanto a riflettere su un’opinione e poi ribadirla non sia molto utile, per dirlo con un eufemismo, ma piuttosto l’attuazione di una retorica fallace e faziosa come la risposta di un Anselmo d’Aosta, che, sotto lo sguardo di un accigliato Gaunilone, fa platealmente uscire Dio dalla porta per farlo rientrare dalla finestra, ponendo sottobanco fin da subito ciò che intende dimostrare poi.
Tuttavia, mettendo le mani avanti, rivendico il mio diritto di riconfermare un’opinione opinabile dopo che essa è stata sottoposta a critica e ha subito gli attacchi della dialettica, fosse anche indistinguibile dalla sua precedente versione, in quanto la dialettica fortifica il pensiero, permette la sua maturazione, implica un passaggio obbligato dinamico tra la tesi e la sintesi facendo sì che queste due non possano mai essere identiche: detto in altre parole, una critica non può essere ignorata e quando così sembra in realtà così non è.
L’argomento è stato al centro di molte considerazioni provenienti da amici e conoscenti dell’area libertaria (odio appioppare etichette) che antepongono l’individuo alla collettività e mettono fortemente in discussione la validità della democrazia in quanto mezzo di imposizione della maggioranza sulle minoranze e l’individuo.
Questi pensieri mi hanno riportato alla mente una lunga discussione, fatta due anni fa con un amico anarchico, che verteva sulla realizzabilità di un metodo decisionale in cui ogni scelta ha valore esclusivamente se condivisa all’unanimità dall’assemblea. Sostenitore dell’unanimità, il suo ragionamento era semplice:
«La maggioranza non può decidere per la minoranza, perché schiaccerebbe la libertà di quest’ultima, quindi il confronto e il dibattito devono continuare finché si trova non un compromesso tra le parti, bensì qualcosa che realmente è voluto da tutta l’assemblea e che sarà approvato, infine, all’unanimità».
«Ma ci sono questioni in cui non esiste tale alternativa», ribattevo io, «in cui va scelta questa cosa o quest’altra, senza vie di mezzo né vie traverse. E, soprattutto, ci sono questioni su cui non ci può essere unanimità perché non c’è certezza, non c’è assolutezza. Tante delle nostre opinioni si basano su presupposti non dimostrabili che, in virtù di tale indimostrabilità, non possono essere scalfite dal confronto e dal ragionamento dialettico e sono destinate a restare inconciliabili con altre opinioni: ecco perché su queste questioni non si potrà mai trovare un accordo unanime».
«L’accordo unanime si può trovare», ribadiva lui, «perché siamo tutti ugualmente intelligenti e quindi in grado di capire su cosa basare i nostri ragionamenti, se su pregiudizi o su dati reali: parlandone, alla fine si escogita una soluzione che riesce ad accontentare tutti».
«Ma come», replicavo, «come puoi esser certo che ciascuno sia in grado di distinguere la realtà da una sua interpretazione parziale basata su presupposti indimostrabili? Come puoi non prendere in considerazione la possibilità che il ragionamento sia scavalcato dall’irrazionalità e dall’emozione istintiva, trasformando l’unanimità in uno strumento dittatoriale ad uso di uno o pochi dei membri dell’assemblea, che, con retorica e sotterfugi, siano riusciti a manovrare le opinioni dei restanti membri?»
«Ma ciò non sarebbe possibile, perché ogni individuo conosce bene il proprio vantaggio e quindi non permetterebbe che la decisione dell’assemblea diventi la decisione di una sua parte».
Bene, ricordo che, conclusa la discussione, mi resi conto che essa era stata esattamente un esempio di ciò che avevo descritto: non riuscimmo a trovare un accordo sulla questione maggioranza-unanimità, sia perché è per definizione impossibile conciliare i due metodi, sia perché, latenti nel discorso, c’erano due diverse opinioni basate su presupposti non dimostrabili, che cozzavano sotterraneamente l’uno contro l’altro: lui, infatti, era convinto che siamo tutti ugualmente intelligenti e quindi capaci di prevenire prevaricazioni plebiscitarie all’interno di un’assemblea, io, dal canto mio, ero meno propenso ad accettare questa idea, sulla base di considerazioni scientifiche e sociologiche. Scientifiche perché se prima eravamo stupide scimmie e ora siamo senzienti esseri umani deve esserci stata selezione naturale sulla base di caratteri tra cui verosimilmente quelli riconducibili alla sfera intellettiva; sociologiche perché la sociologia, oltre che la storia, mostrano quanto sia facile che gruppi di persone siano dirottati verso interessi particolari che non giovano ad essi. Ora, oltre al fatto che la scienza, di cui io ho fatto il mio strumento per la dimostrazione del mio presupposto, per sua struttura non verifica ma falsifica, dunque non dimostra la verità ma la non verità, c’è anche un altro problema. Infatti sono sicuro che anche il mio amico riuscirebbe a sostenere ragionevolmente il suo presupposto, cioè che siamo tutti intelligenti allo stesso modo.
La morale di questo breve racconto è che alcune scelte, al netto degli obiettivi che ci si pone, sono destinate a rimanere arbitrarie, dunque arbitraria in sede teorica rimane la mia preferenza per la democrazia piuttosto che per il sistema unanime.
Esso suscita però altre domande, perché degli stessi problemi che esponevo in quella discussione (latenti derive autoritarie, predominio delle emozioni sulla ragione) è passibile il metodo democratico. Perché allora preferisco la democrazia? Perché preferisco il collettivo all’individuale? Perché penso che se pensi solo per te, commetti lo stesso errore di Adam Smith, a cui dobbiamo la convinzione che se alziamo il livello dell’acqua per far salire gli yacht dei ricchi, al nuovo livello si alzeranno anche le barchette dei poveri, lo stesso errore per cui si immagina l’individuo avulso da condizionamenti, capace di scegliere nel proprio interesse, autonomo e libero come se vivesse su un’isola deserta. Ma qui il discorso si chiude, tornando all’arguto Gaunilone, perché quest’isola non esiste.
Fondamenti di chimica
C’è un aspetto univocamente positivo del progresso e dell’espansione della scienza nel mondo: essa porta e insensibilmente diffonde attorno a sé un messaggio di razionalità che molti si augurano possa portare le anonime masse, millenarie pedine di pochi, a trasformarsi in insiemi di uomini singolarmente pensanti, fermamente decisi, abbandonando la puerile passionalità delle masse di ieri e di oggi, a cogestire razionalmente la società in cui vivono.
Forse tutto ciò è un’utopia, ma c’è da augurarsi che sia la stessa utopia, che si chiamò poi Illuminismo, degli uomini del Rinascimento.
Paolo Silvestroni, Fondamenti di chimica, cap. 1, 1995
Commento a Lévi-Strauss
Non c’è più nulla da fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche,
indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di variare e di rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella monocultura, si
prepara a produrre la civiltà di massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda.
Tristi tropici, C.
Lévi-Strauss, 1960
Nel mondo della sociologia è noto un principio per il quale all’interno di ogni gruppo la maggioranza tende ad eliminare la diversità delle minoranze.
Il principio è detto “omologazione” ed è tanto più forte quanto più il gruppo sociale è regolato da convenzioni specifiche e leggi complesse: per questo nelle società
industrializzate la diversità è stata spesso associata all’eversione e le minoranze additate come capri espiatori.
L’omologazione è qualcosa di più sottile di una semplice accusa delle minoranze, si manifesta con il disappunto del benpensante di fronte alla naturalezza e alla sincerità contrapposte all’artefazione e alla finzione, ma non se ne parlerà hic et nunc.
Quando il confronto avviene tra gruppi, l’omologazione si rivela un utile strumento di definizione dell’identità sociale di ciascuno e permette di catalogare il singolo da una parte o dall’altra.
Ma è problematico stabilire se le società umane siano dotate di soli caratteri peculiari o esistano dei valori condivisi dall’intera umanità. Generazioni di filosofi del mondo occidentale hanno cercato l’universalità dell’uomo e la perfezione del sistema sociale, trovandola per esempio nell’uso della ragione.
Secondo S. Veca, la società occidentale è solo una tra tante “tribù” i cui valori non hanno nulla di particolare se non la pretesa di universalità che ha giustificato la sua supremazia (Prefazione alla “Pace perpetua di Immanuel Kant”): così si è giunti a “un’isola di pace in un mare di morte e distruzione”.
Ma aldilà del caso specifico europeo, a cui diamo maggiore importanza non per motivi scientifici o sociologici ma solo per una questione storica e culturale, resta da definire la natura del confronto tra gruppi o “tribù” diverse, se conflittuale, contrattuale o naturalmente amichevole. L’ultima sembra dover essere esclusa sulla base della storia magistra vitae, la scelta tra le altre due alternative è problematica ed è stata dibattuta ampiamente, da Locke a Rousseau, da Hobbes a Kant e ad Hegel.
Per Kant il confronto è conflittuale se all’interno di ogni Stato non c’è un ordinamento “repubblicano” (nel senso di uno “Stato di diritto”) che risolva le tensioni sociali e se manca un organo internazionale (non sovranazionale) garante della pace.
La pace per Kant deve essere ufficialmente istituzionalizzata. Ma a che pro? Perché la pace è da preferirsi al conflitto?
La risposta non è semplice, perché la pace potrebbe essere uno di quei valori falsamente universali propugnati dall’Occidente. Eppure la civiltà europea ha ottenuto il dominio del mondo ed è difficile pensare che ciò sia dovuto ad una sostanziale accettazione dei suoi valori.
Per spiegare l’affermazione della civiltà occidentale, l’antropologo J. Diamond (in “Armi, acciaio e malattie”) ha proposto una teoria deterministica, ben documentata, che mette in luce come il successo europeo sia da imputare alle condizioni iniziali dei luoghi in cui tale civiltà ebbe origine, adducendo dunque dimostrazioni geografiche e climatiche che escludono qualsiasi supremazia genetica dei conquistatori.
La storiografia marxista invece spiega l’imposizione della cultura europea nel mondo, fenomeno noto come imperialismo (1870-1914) o neocolonialismo (dal 1960), in termini economici: essendo la società occidentale capitalista, essa cerca di aprire nuovi mercati per smaltire il fisiologico eccesso di capitale. Tale imposizione comporta una repressione che in quanto tale provoca la devastazione dell’esistente (si ricordi già Tacito: “fanno il deserto e lo chiamano pace”).
Taylor e Langer (storici) riconducono l’imperialismo ad un istinto atavico di aggressività, incompatibile con il capitalismo, piuttosto razionale.
L’affermazione di Lévi-Strauss, marxista, riprende la concezione dell’imperialismo come devastazione della diversità causata dal fenomeno dell’omologazione (“società di massa”), tuttavia esordisce come potrebbe anche Taylor (“non c’è nulla da fare”).
È un peccato che dopo la tanta fatica che il fiore della civiltà ha fatto per svilupparsi, questa sia destinata a cristallizzarsi, come sembra indicare la modernità.
La società di massa è la più complessa, quindi anche la più omologata, già dai primi dell’Ottocento (si ricordi il Tristano delle “Operette morali” di Leopardi).
Per dirla con Lévi-Strauss, l’umanità si cristallizza, e non solo nel senso dell’immobilità sociale che porta l’Occidente ad arroccarsi senza accettare la realtà, ma anche nel fatto che la maggioranza è incapace di immaginare un sistema differente e di valorizzare la diversità, che sarebbe sintomo di civiltà, e non comprende che se l’Occidente cadrà sarà non per l’immigrazione clandestina ma perché non è stato in grado di valorizzare le nuove generazioni, fornendo loro una prospettiva di cambiamento (“L’ospite inquietante”, U. Galimberti). Ma la maggioranza ha torto perché, dicevano gli Amerindi, “non cresce muschio sulla pietra che rotola”.
Ci vuole movimento: movimento intellettuale, civile, politico, sociale, culturale. Senza movimento tutto soffoca nella noia e nell’indifferenza dettate dall’omologazione.